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“Menhir”

Con il termine di “Menhir” (dal bretone men e hir “pietra lunga”; in italiano anche “pietrafitta”) si intende un monumento la cui costruzione generalmente si colloca all’età neolitica o del Bronzo. Formati da una grossa pietra a forma di parallelepipedo allungato (la loro forma, però, alcune volte si assottiglia verso la cima) piantata verticalmente nel suolo, i Menhir sono quasi sempre associati ai Dolmen, dal momento che compaiono quasi sempre poco distanti gli uni dagli altri.

Mistero e dubbi invadono da sempre il mondo dei Menhir: se non è chiaro quale popolo li avesse eretti e, soprattutto, per quali scopi, è comunque possibile che i luoghi in cui i Menhir erano stati costruiti fossero considerati punti adatti a stabilire un contatto con il mondo ultraterreno e con gli Dei.

A differenza del Dolmen, il MENHERIN rappresenterebbe l’immagine maschile per unire terra e ciel.

Quanto alla loro funzione, ancora non esiste una spiegazione certa e del tutto plausibile. Quel che è certo è che i Mehnir avranno acquisito diverse funzioni nel corso dei secoli.

Si pensa che per i Menhir isolati, fungessero da “segnalazioni” di tombe di straordinaria importanza. In molti tuttavia non escludono che poi anche gli stessi Menhir abbiano assunto, al pari dei Dolmen, il significato di veri e propri simulacri dedicati ai morti

Simbolicamente i Menhir formano una linea retta che unisce i tre mondi, il mondo celeste e divino, il mondo umano e il mondo infero al di sotto, quello dei morti.

Infine, molte correnti tendono a pensare che la forma a obelisco dei Menhir li renda simili ad antenne che venivano piantate dove vi era una concentrazione di nodi di Hartmann (di cui abbiamo parlato anche a proposito dei Dolmen), in corrispondenza di corsi d’acqua sotterranei. Una loro funzione era allora forse quella di ricevere le informazioni che il cosmo inviava per distribuirle sulla terra e di raccogliere tutte le energie della terra per inviarle al cielo.

Oristano Mitchell’s Fold, Inghilterra

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Il rito funebre nella preistoria

Ricostruire come potesse svolgersi i riti funebri non è un’impresa facile: molti dei reperti a disposizione, infatti, non sono stati raccolti tenendo conto della possibilità di effettuare questo genere di ricerche. Per i nostri progenitori preistorici la morte era un momento di cambiamento, un percorso verso una nuova condizione, ovvero il passaggio dal mondo dei vivi a quello dei morti.

I resti umani rinvenuti in una grotta della Puglia suggeriscono che 7 mila anni fa i riti funebri seguivano un andamento complesso e in più fasi, in un rituale che poteva protrarsi per un anno o più.

Settemila anni fa i riti funebri in uso tra alcune delle popolazioni che abitavano la nostra Penisola seguivano un protocollo piuttosto elaborato: dopo una pre sepoltura di durata incerta, le ossa dei defunti venivano separate dalla carne e risepolte in una grotta dal forte significato simbolico, insieme a resti animali, vasellame e utensili di pietra. Piccoli segni sulle ossa presenti su di esse fanno pensare che furono riesumate – a distanza di un anno almeno e risepolte. Collocare le ossa all’interno della cava poteva così simboleggiare l’unione con la pietra, un ritorno alle origini in un ideale ciclo di incarnazione. In un’epoca in cui la morte era meno un tabù culturale rispetto ad oggi I dolmen, classico esempio di sepoltura neolitica.

Anche sulla funzione dei Dolmen esistono diverse ipotesi. In base a svariati ritrovamenti, è che i Dolmen – la cui costruzione viene collocata tra la fine del V millennio a.C. e la fine del III millennio a.C. – servirono per sepolture individuali o collettive: gli archeologi hanno infatti ritrovato al loro interno, o sotto, molte ossa, evidenti testimonianze di sepolture, altari votivi e tracce dei banchetti funebri. Non solo: le suppellettili ritrovate, come armi, oggetti in pietra, ceramiche decorate, che li fa posizionare nell’età neolitica o agli inizi dell’eneolitico, fa pensare a dei chiari monumenti sepolcrali comuni.

Il dolmen Sa Coveccada (letteralmente la pietra messa per ricoprire), è un “monumento preistorico, composto di poche pietre rudi infisse dritte nel suolo, che reggono una grande pietra orizzontale”,

La cava, rimasta inviolata fino alla sua scoperta, nel 1931, ha conservato perfettamente il suo tesoro di resti. Lo studio sui resti scoperti nella Grotta Scaloria, una formazione piena di stalattiti e stalagmiti alla periferia nord di Manfredonia, nel Tavoliere foggiano, rivela un processo di separazione dei tessuti “morti” da quelli “vivi” finalizzato all’elaborazione del lutto.

Formati da due grosse pietre infisse verticalmente sovrastate da un’ulteriore lastra lapidea posta orizzontalmente, molte credenze vogliono che i Dolmen siano stati innalzati secondo “linee di forza” terrestri a dimostrazione degli antichi poteri trasmessi dai druidi.

E se anche molte delle forme a noi pervenute sono simili a delle capanne, in realtà a noi oggi sarebbe visibile solo una piccola parte di qualcosa di più complesso: i Dolmen più arcaici sono infatti formati da una “camera” circolare o rettangolare preceduta da un “corridoio” (il cosiddetto “dromos”) di accesso e tutto ricoperto da un tumulo di terra o di pietre.

Secondo quanto si racconta, inoltre, il Dolmen avrebbe valenza femminile con un doppio utilizzo: il primo, dettato dalla concavità della pietra ed esplicherebbe a una funzione di raccolta delle informazioni inviate dal cielo. Il secondo si rifarebbe a una funzione terapeutica: a chi si sedeva sotto, la pietra consentiva di percepire un’energia guaritrice. la polarità femminile tende a incassare le energie del cosmo per donarle a chi può farne un uso corretto.

Molte cose in comune, poi, i Dolmen le avrebbero con i cosiddetti punti “geopatogeni”, ossia con quegli incroci (i cosiddetti nodi di Hartmann) dei raggi tellurici generati dalle faglie, dai corsi d’acqua sotterranei, da influenze cosmiche e da mutazioni ed emissioni elettromagnetiche. In pratica, il posizionamento e l’orientamento erano sempre in funzione di una corrente energetica positiva, con direzione nord-ovest sud-est, quella che Walter Kunnen chiama “linea della fertilità”.